Il lato debole di internet

di alex il 28 Luglio 2012

S’intitola così un articolo “filosofico” dello scrittore (ex Espresso) Roberto Cotroneo e pubblicato su Sette del Corriere pochi giorni fa (lo incollo in fondo, non trovandolo online; vediamo se me lo fanno togliere, vale anche come esperimento).

In sostanza Cotroneo riprende (senza citarlo, forse inconsapevolmente) i concetti della filter bubble di Eli Pariser, secondo cui i nuovi servizi internet stanno creando dei filtri che ci rinchiudono in una bolla; Google, Amazon ci fanno vedere solo cose che riflettono i nostri interessi, Facebook ci spinge a leggere solo i nostri “amici” ecc. Cotroneo estremizza il concetto arrivando a dire che il web è l’opposto della vita reale (un’affermazione è che a sua volta l’opposto rispetto a una consapevolezza ormai dominante).

Cotroneo afferma che nella vita reale cerchiamo esperienze nuove, mentre sul web solo cose che confermano ciò che pensiamo e che ripetono ciò che abbiamo già fatto.

Io credo che non sia vero. L’idea di filter bubble è giusta al confronto con la visione classica di internet, basata invece proprio su serendipity, continuo incontro con il diverso e il prima ignoto (in forma di relazioni e di conoscenze): il concetto di ipertesto è proprio questo; la chat di Irc aveva questo grande potere. Eli Pariser nota insomma che questa peculiarità di internet si sta affievolendo. Ma- aggiungo io- questo avviene proprio perché internet diventa ormai specchio della realtà- già, proprio il contrario di quello affermato da Cotroneo. Realtà dove tradizionalmente eravamo portati a leggere gli stessi giornali, a frequentare amici del nostro gruppo sociale, della nostra professione, ecc. Internet (il più liquido dei nuovi media, riflesso di una società mobile) riusciva a rompere questo, facendo leva su interessi ipertestuali e periferici. Ci riesce ancora? Sì, ma- e qui forse ha ragione Pariser- sempre meno. Inevitabile.

 

 

 

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“Il lato debole di internet”, Roberto Cotroneo, Sette del Corriere della Sera

Possiamo dire che siamo alla terza fase del grande fratello di George Orwell. La prima era quella classica:
uno che controlla tutti. La seconda è quella televisiva: tutti che controllano pochi dentro una casa. La terza è
quella di oggi: tutti che controllano tutti. E dunque un controllo collettivo. Ho parlato di identità del web e
dell’uso della fotografia come narrazione del quotidiano. Ma queste due cose se ne portano dietro altre. E
non parlo soltanto del fatto che più si raccontano identità, più si è interessanti come consumatori. Se compro
su Amazon solo un certo tipo di libri, Amazon mi suggerirà libri analoghi. E questo vale anche per la musica e
per i prodotti in genere. Ma in questo modo il mio sapere tende a restringersi a quello che so già: se posto su
twitter certe informazioni finirò per essere interessante solo per quelli che vogliono leggere proprio quelle
informazioni. E allora le idee sono isole in cui riconoscersi e rifugiarsi, e lo scambio intellettuale e culturale
rischia di specializzarsi in gusti e settori, mondi e condivisioni parziali. Ma se accadesse – perché siamo a un
cambio di paradigma da osservare giorno per giorno – vuol dire che di mezzo ci sono due concetti molto
importanti. Uno è quello dell’esperienza, l’altro è quello del corpo. L’esperienza sul web rischia di essere il
contrario dell’esperienza nella vita pratica. Sul web più che cercare stimoli inattesi, cerchi esperienze da
ripetere, come fosse un continuo reiterare un desiderio che già conosci. L’inatteso è filtrato, a volte censurato.
Se qualcuno dice cose che non capisco e non condivido potrei cancellarlo o toglierlo dai miei follower. E
allora l’esperienza non è mai l’avvento dello sconosciuto nel conosciuto, non è mai la mescolanza di saperi,
ma il ripetersi di cose che rafforzano identità fragili confermandole. Tutti quelli che la pensano come me
commentano le mie opinioni, e mi aiutano a non perdermi. Quindi si tratta di un’esperienza filtrata. Percorsi &
sPazi. Il corpo è invece qualcosa di inquietante nell’era del web 2.0. Da anni si parla di virtualità, si parla delle
false identità su internet, si racconta come le persone comunichino attraverso immagini che sono una
manipolazione della realtà, e appartengono più al voler essere che all’essere. Ma un genio come Michel
Foucault, che tutto questo non l’ha visto, scriveva in un testo pubblicato postumo e intitolato Il corpo, luogo di
utopia : «Il corpo è il punto zero del mondo, là dove i percorsi e gli spazi si incrociano. Il corpo non è da
nessuna parte». Si sa che sul web il corpo non è da nessuna parte, al massimo è una sacra icona. Solo che
ha smesso di essere il punto zero del mondo, perché i percorsi e gli spazi si incrociano attraverso l’esercizio
della parola. Non è virtualità, parola ormai antica e inservibile almeno quanto interattività: è l’impossibilità
dell’esperienza condivisa con il corpo, dell’esperienza come fisicità, ma solo come linguaggio, e questo
consegna al linguaggio un potere impressionante. La cosa che più deve far riettere è che, per quanto il web
non abbia voce, genera un rumore assordante, ed è incapace di silenzio. Mentre il corpo comunica in
silenzio, sempre. L’assenza e il silenzio sono due elementi intollerabili nelle nuove relazioni sociali del web.
Perché assenza è fuga, è rifiuto, è cancellazione di se stessi. E silenzio è come coprirsi con un velo e non
essere visti. Nell’esperienza della vita il corpo è presenza e assenza, e il silenzio è empatia, sentimento
persino. La parola, la scrittura sono invece verbo, racconto, e dunque verità e falsificazione assieme. E così
siamo passati dal piacere del testo al testo come piacere. Il corpo non è da nessuna parte e non si incrociano
più percorsi e spazi, si incrociano invece parole che per non smarrirsi nei silenzi e nelle attese si moltiplicano,
generando testi che sono richieste di aiuto tra naufraghi di questo temp

{ 3 commenti }

Virginia Agosto 3, 2012 alle 8:13

C’era anche un estratto del libro di Eli Pariser anche sul domenicale del Sole 24 ore. Condivido la sua analisi. Tranne nell’ultimissima conclusione. E’ vero che internet rispecchia la realtà, perché ne è parte. Ma la realtà è complessa: ci sono persone che ritornano sempre alle stesse fonti di informazioni e di discussione, in quello che già qualcuno ha definito “echo chambers effect”. Ma è anche vero che chi è abituato a lasciarsi stupire dai risultati delle ricerche e delle discussioni continua a farlo su internet come nella vita reale. E continua a cercare. E in questo senso internet è strumento che offre una ricchezza non resa possibile da quasi nessun altro strumento finora. Il messaggio alla fine sta nel come si usa il mezzo. E nell’utilizzo ci sono diversi modi.

zoo med digital Ottobre 14, 2014 alle 9:56

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Alfredo Agosto 12, 2019 alle 21:43

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